Documento riassuntivo sulla base delle considerazioni emerse nel 82 Cdd FdCA
Tutto
tace di fronte a una delle più massacranti offensive condotte dal padronato,
che appare ormai vincitore su tutta la linea, una
offensiva in atto dagli assi ormai chiari da tempo.
E poiché i padroni
quando distruggono contemporaneamente costruiscono a loro vantaggio è sempre più evidente un progetto di
riorganizzzazione complessiva e di ridefinizione sociale che investe
tutta la società e che ovviamente parte
dal mondo del lavoro, e dalle sue forme organizzate, in cui le forme sindacali
rivendicativo- conflittuali vengono progressivamente espulse dai luoghi
di lavoro
L'art. 18, ormai relitto del passato è stato il punto culminante di un processo di
destrutturazione legislativa durata circa
un decennio e che si affianca all'indebolimento e all’
esautoramento delle capacità
contrattuale dei lavoratori.
contrattuale dei lavoratori.
La ristrutturazione ormai completamente delineata comprende
- riduzione dei posti di lavoro
- riorganizzazione della produzione e dei settori
- centralizzazione della precarietà
- spostamento della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale e creazione di un sindacato aziendale
- riduzione dei posti di lavoro
- riorganizzazione della produzione e dei settori
- centralizzazione della precarietà
- spostamento della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale e creazione di un sindacato aziendale
- progressiva espulsione delle residue forme sindacali conflittuali, o meramente rivendicative, dai
posti di lavoro.
L'attacco al lavoro pubblico con le stesse modalità già viste nel privato (già praticata l'esautorazione contrattuale, già prevista la riduzione del livello salariale) rischia nella migliore delle ipotesi di avere una possibilità di risposta esclusivamente formale ma nella sostanza di semplice gestione delle strategie di tagli già previste nell'intesa firmata a suo tempo dove i sindacati firmatari si pongono come cogestori e garanti della pace sociale. E se CISL e UIL hanno da tempo fatto una scelta netta a favore di privatizzazione e sussidiarietà, assicurazioni per i ricchi e diritti universali, ovvero miserrimi, per i poveri, come strategia di gestione di quella che allora si chiamava globalizzazione, scommettendo sulla governabilità di processi che invece si dimostrano sempre più ingovernabili, la CGIL invece scegliendo di fatto di non scegliere, vittima e ostaggio dell’istinto di autoconservazione della sua burocrazia, non è stata capace di contrapporre alcuna strategia e si mostra ora in piena deriva tra aperta complicità, scelte adattative e ultimi colpi di coda conflittuali, mentre il sindacalismo di base oscilla tra testimonianza di sé e sindrome da tela di Penelope.
L'attacco al lavoro pubblico con le stesse modalità già viste nel privato (già praticata l'esautorazione contrattuale, già prevista la riduzione del livello salariale) rischia nella migliore delle ipotesi di avere una possibilità di risposta esclusivamente formale ma nella sostanza di semplice gestione delle strategie di tagli già previste nell'intesa firmata a suo tempo dove i sindacati firmatari si pongono come cogestori e garanti della pace sociale. E se CISL e UIL hanno da tempo fatto una scelta netta a favore di privatizzazione e sussidiarietà, assicurazioni per i ricchi e diritti universali, ovvero miserrimi, per i poveri, come strategia di gestione di quella che allora si chiamava globalizzazione, scommettendo sulla governabilità di processi che invece si dimostrano sempre più ingovernabili, la CGIL invece scegliendo di fatto di non scegliere, vittima e ostaggio dell’istinto di autoconservazione della sua burocrazia, non è stata capace di contrapporre alcuna strategia e si mostra ora in piena deriva tra aperta complicità, scelte adattative e ultimi colpi di coda conflittuali, mentre il sindacalismo di base oscilla tra testimonianza di sé e sindrome da tela di Penelope.
Il tutto in uno
scenario europeo di ristrutturazione complessiva dell'eurozona, in
cui noi siamo tra le aree più deboli, in cui non sarebbe stato comunque semplice
mantenere in buona salute un’organizzazione
rivendicativa e conflittuale, al termine di una ristrutturazione del
diritto di lavoro, con un quadro politico ovviamente schierato, e
rapporti di forza sfavorevoli ai lavoratori, e in assenza di un sia pur minimo
coordinamento transnazionale tra forze sindacali.
E se altrove in Europa, ad esempio in Spagna, forme di lotta
continuative e partecipate, pur non riuscendo ad fermare la devastazione
padronale, continuano a tessere resistenze, o come in Francia, si manifestano forme di riottosità elettorale ai diktat
liberisti, in Italia ogni forma di rappresentanza di opposizione, che sia istituzionale o di base, continua a brillare
per la propria assenza o inconsistenza.
Un’anomalia tutta italiana che ha a che fare con la ormai
incancrenita questione della rappresentanza
oltre che con il venir meno, in questo paese, dei più elementari
principi democratici, dalla separazione dei poteri alla proporzionalità delle
pene (vedi le ultime uscite per via giudiziaria dei conflitti sociali) alla non ingerenza tra stato e chiesa, alla
piena compenetrazione tra poteri politici ed economici sia in chiave
affaristica che legislativa.
Sembra non esserci via di scampo per chi non fa parte dell’élite garantita e
garantente, che agita principi fintemente meritocratici per continuare a dare
risorse a chi ne ha e a toglierle a chi non ne ha, che chiede la sicurezza dell’impunità dei
privilegi accanendosi contro i più deboli e contro ogni forza residua di
resistenza.
Ma anche se sembra inutile, se il rapporto tra il costo delle
lotte e il loro risultato sembra già scritto, se sembra persa la consapevolezza
di poter se non invertire o fermare certi processi almeno rallentarli, se il
padronato ha portato a casa quello che voleva le lotte continuano. Continuano a
macchie di leopardo, continuano con sforzo e testardaggine degna di miglior
causa, continuano nei settori più difficili, dove le condizioni di sfruttamento
sono le peggiori, come nel settore della logistica, dove le lotte si perdono,
ferocemente, ma si fanno, in maniera altrettanto disperata, al di là della
rappresentanza sindacale, con la tenacità di chi non ha molto da perdere, e
riscopre forme di lotta, di organizzazione e di auto-organizzazione, vecchi e
nuovi al tempo stesso. Così come non ha nulla di nuovo, ma ha ancora molto da
dire, il cercare di mettere in
rapporto chi svolge un'attività sindacale dentro il posto di lavoro, con chi
vive un territorio sempre più ostile e desertificato, esistenze sempre più
precarie, che al particolare della propria condizione affiancano l’ attenzione
alle forme di difesa dei beni comuni e di collettivizzazione che sta
emergendo nell'ultimo periodo. Il
conflitto, che esca
volontariamente o sia buttato fuori dalle fabbriche, si riversa ed è agito sul territorio,
cerca sbocchi e ne deve trovare.
E se il conflitto di classe passa prioritariamente per i precari e per i migranti, dove è più alto il grado di sfruttamento, e le lotte sul lavoro non possono che coincidere con richieste di diritti e di partecipazione, con forme di intervento dove all'intervento sindacale in senso stretto si affianca la centralità dei diritti e della cittadinanza, nei posti di lavoro cosiddetti garantiti, che garantiti non sono e non saranno più, l’attività sindacale, con una sia pur minima possibilità di incidere, deve resistere e riorganizzarsi, al di la delle burocrazie e delle indicazioni dall’alto, portare a casa quello che si può nella contrattazione, resistere alla riorganizzazione del lavoro, mantenere aperti spazi di agibilità. Perché i diritti conquistati cessino di sembrare privilegi, e siano quindi difesi e difendibili, è necessario condividere e prestare sponde a tutte le forme di resistenza materiale e simbolica. Dovunque possibile, sia in forma organizzata, sia in forme riconducibili al sindacato urbano, sia in tutte quelle forme che è possibile darsi e sperimentare, dal basso e dalla solidarietà di base nei luoghi di lavoro e nel territorio. Per resistere al capitalismo che continua a fare il suo sporco lavoro, magari invertendo il percorso della ricchezza che dopo decenni nelle nostre aree invece di essere portata dentro viene portata altrove, per resistere alle campane della destra, dell’individualismo e del razzismo, le più facili, e perniciose, possibili proposte di uscite dalla crisi.
E se il conflitto di classe passa prioritariamente per i precari e per i migranti, dove è più alto il grado di sfruttamento, e le lotte sul lavoro non possono che coincidere con richieste di diritti e di partecipazione, con forme di intervento dove all'intervento sindacale in senso stretto si affianca la centralità dei diritti e della cittadinanza, nei posti di lavoro cosiddetti garantiti, che garantiti non sono e non saranno più, l’attività sindacale, con una sia pur minima possibilità di incidere, deve resistere e riorganizzarsi, al di la delle burocrazie e delle indicazioni dall’alto, portare a casa quello che si può nella contrattazione, resistere alla riorganizzazione del lavoro, mantenere aperti spazi di agibilità. Perché i diritti conquistati cessino di sembrare privilegi, e siano quindi difesi e difendibili, è necessario condividere e prestare sponde a tutte le forme di resistenza materiale e simbolica. Dovunque possibile, sia in forma organizzata, sia in forme riconducibili al sindacato urbano, sia in tutte quelle forme che è possibile darsi e sperimentare, dal basso e dalla solidarietà di base nei luoghi di lavoro e nel territorio. Per resistere al capitalismo che continua a fare il suo sporco lavoro, magari invertendo il percorso della ricchezza che dopo decenni nelle nostre aree invece di essere portata dentro viene portata altrove, per resistere alle campane della destra, dell’individualismo e del razzismo, le più facili, e perniciose, possibili proposte di uscite dalla crisi.
Tutte da scartare. L’unica è l’alternativa libertaria.
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