Ilva: capitolazione dell'antagonismo e futuri possibili.
Ciò che sta accadendo all’Ilva di Taranto in questi giorni
concentra una serie di questioni irrisolte che, esplodendo all’unisono,
sospingono alla confusione delle priorità, delle cause e degli effetti, delle
soluzioni, e, di queste, del loro orizzonte immediato e a lunga scadenza. Lungi
da voler fornire un’analisi complessiva e complessa della vicenda, si vuole qui
affrontare alcuni elementi critici e, possibilmente, contribuire a una
riflessione più generale.
La vicenda dell’Ilva è, da un certo punto di vista paradigmatica.
Il Capitale distrugge. Non c’è giustificazione. Il Capitale nel suo incedere,
elementare o complesso che sia, mostra la sua attitudine naturale alla devastazione biologica (vita e ambiente) che tende a
uscire dai cancelli della fabbrica stessa e a investire la vita di tutta una
comunità e non solo di chi in fabbrica vi lavora. È la dimensione naturalmente totalitaria del Capitale
stesso, che non accetta (non potrebbe) una soluzione differente a quella del
raggiungimento del massimo profitto. Nulla di nuovo.
Per i cittadini e gli operai di Taranto, l’Ilva rappresenta
un nemico chiaro e riconoscibile, con complici evidenti che, nonostante ultimi
tentativi di smarcamento come quelli operati dalla magistratura e dalle burocrazie
sindacali, non è più possibile dissimulare. Ma dalla vicenda tarantina emergono
anche altri elementi che hanno a che fare, con l’incontro di due debolezze che,
se pure contrapposte (al momento non lo sono), rappresentano i termini della
confusione, ma anche le possibilità di un’analisi che esca dal contingente e, soprattutto,
dal recinto in cui il ricatto lavoro/salute ci sta costringendo. Oltre questo
ricatto, vecchio tanto è vecchio lo sfruttamento capitalista, la borghesia nel
suo complesso (Stato-padronato-burocrazie sindacali) mostra elementi di irrisolutezza
e indeterminazione e brancola nel buio. Una magistratura tardiva agisce fuori contesto,
ponendo problemi e non soluzioni, come d’altra parte il governo non riesce a
immaginare una via d’uscita neanche contingente e si limita a un blando ricorso
legale che, pure andasse in porto, riporterebbe i giochi al loro inizio. Il padronato,
invece, trema di fronte alla possibile chiusura e, anch’esso, oltre agli
assetti attuali, non sembra intenzionato a risolvere, anche solo parzialmente
la questione. Le burocrazie sindacali, dietro una retorica lavorista,
nascondono responsabilità decennali e complicità concrete (quanti soldi hanno
preso CGIL-CISL-UIL dall’Ilva?). La debolezza è evidente, tanto quanto è evidente
che questi attori non abbiano le carte in regola per poter avanzare proposte né
possibili soluzioni.
La seconda debolezza si evidenza, invece, in una soggettività
sociale che con difficoltà riesce a riconoscersi nei suoi interessi precipui. Cedere
al ricatto salute/lavoro-reddito/vivibilità ne è chiaro esempio. È chiaro, d’altronde,
che l’Ilva non può sic et simpliciter chiudere
e mandare alla miseria decine di migliaia di persone e tutto un territorio;
come è altrettanto chiaro che l’Ilva non può continuare a produrre in queste
condizioni, ammazzando la gente e devastando un territorio, di per sé meraviglioso.
Francamente convincono poco alcune soluzioni
ultrastataliste proposte da ciò che rimane della cosiddetta estrema sinistra
italiana. Ferrando del Partito Comunista dei Lavoratori a ogni sollecitazione
propone sempre la stessa identica solfa, falsamente taumaturgica, della nazionalizzazione,
che si risolverebbe in una statalizzazione, ovvero nel riconsegnare allo Stato
il sito industriale, riportando il problema alle sue origini. D’altra parte,
non ci sembra che si stiano formando Consigli operai e popolari capaci di
gestire una siffatta proposta che, quindi, solo un apparato statale potrebbe
dirigere.
Ma se Ferrando e il suo partito ripropongono uno schema
trito e utile solo alla fare un po’ di propaganda pro domo sua, particolarmente pericolosa ci sembra la presa di
posizione di alcuni centri sociali italiani (Acrobax, Ska, Rialzo, Cdq Taranto,
Villa Roth, Officina 99, Asilo 45) e il loro documento Il pettine, l’apecar, la frattura e noi rintracciabile in rete.
La logica événementiel che sottende il documento
produce un’attitudine culturale e conflittuale tutta interna alle logiche
stataliste e capitaliste. Innanzitutto, cede e s’arrende al ricatto banale volto
a contrapporre salute e lavoro. Sposare l’uno o l’altro dei due termini
significa cadere mani e piedi nella trappola voluta in primo luogo dalla
direzione aziendale sulla quale tutti (magistratura, burocrazie sindacali e
apparati locali dello Stato) si sono accodati, quantomeno per prendere tempo.
Sono due gli assi intorno a cui il documento suddetto si
dipana: la contestazione in piazza del 2 agosto e la proposta del reddito. Elementi
debolissimi.
In primo luogo, la contestazione, per quanto mediaticamente
efficace e più che degna e legittima del 2 agosto (quando un corteo di qualche
centinaio di operai e cittadini e “compagni” fece irruzione al comizio di
CGIL-CISL-UIL) non rappresenta alcuna «frattura». Non rompe
nessun «paradigma» e non sembra fornire alcuna via per la ricomposizione di una
soggettività in qualche modo antagonista. Una blanda contestazione alle
dirigenze burocratiche (di questo si è trattato, tanto più in una situazione
tanto drammatica in cui si contano i morti) non rappresenta una rottura con le
logiche esistenti, anzi assomiglia terribilmente a un elemento scontato, accettabile
e, tutto sommato, riassorbibile. Siamo assolutamente solidali con chi per
questo è vittima della repressione statale, ma non possiamo non dire che qualche
denuncia per aver spostato qualche transenna, in sé, non rende l’atto
particolarmente “rivoluzionario”. Siamo ben lontani dai Consigli di fabbrica
autoconvocati e dai “bullonatori” di recente memoria.
L’elemento del reddito
quale soluzione anch’essa taumaturgica rappresenta il compimento della resa. Nel
concreto significa non far pagare un cent a padron Riva e riversare la questione
sul pubblico intervento, pagato dalle tasse di altri lavoratori. Nulla di male
se fosse una necessità contingente (quella di sostenere collettivamente dei
lavoratori in difficoltà), ma quando diventa, come proposto, la soluzione
permanente, si trasforma in un’altra cosa. Ovvero, un parassitismo sociale
basato e sostenuto dallo Stato. Ricordiamo che lo Stato è uno strumento di
dominio di classe, non certo un agente neutro e disinteressato. Avanzare che,
all’interno degli attuali rapporti sociali, lo Stato borghese possa essere
strumento di redistribuzione delle ricchezze, come asserito nel documento in
questione, assomiglia alle proposte picciste degli anni ’50 o al tardo pensiero
bertinottiano, ovvero un atto di conservazione dell’esistente. Per quanto sia
sembrata “arrabbiata”, e non abbiamo motivo di pensare che non lo fosse, la
protesta del 2 agosto, non ci sembra appunto un elemento di tale rottura capace
di costringere il governo Monti-Casini-Alfano-Bersani (o qualsiasi altro
esecutivo) a cedere sulla redistribuzione delle ricchezze. Perché mai
dovrebbero farlo? Perché qualche cittadino, operaio e ragazzo impegnato strilla
un po’ troppo forte? Siamo seri. Il potere, anche quello economico, non verrà
mai ceduto da chi lo detiene. Non ci sembra responsabile asserire che una
protesta “arrabbiata” possa costringere uno Stato del G8 a concedere alcunché in
questo senso.
D’altronde, il documento esplicita una volontà di
de-industrializzante che minerebbe proprio ciò che lo stesso documento propone.
Se si riduce al lumicino la capacità produttiva di un Paese (l’Ilva non è una
cooperativuncola di servizi ma la più grande fabbrica d’acciaio d’Europa ),
alla fine non rimarranno neanche risorse da redistribuire, a meno che non si
presupponga di andarsi a prendere tali risorse, con la forza, da qualche altra
parte. Lo diciamo chiaramente: la proposta del reddito generalizzato, oltre a
essere una proposta vecchia, che deriva dai tardi anni settanta del Novecento (lavoro o non lavoro salario garantito,
si diceva all’epoca, più di 40 anni fa), è pensabile solo all’interno di un
ricco Stato imperialista. Facciamoci i conti per favore.
Torneremo in un altro momento sulla questione del reddito, come torneremo anche sul tanto
sbandierato well-fare che, in un paese imperialista, si coniuga necessariamente e
concretamente con il war-fare.
Ricordiamo soltanto che stiamo parlando di ammortizzatori
sociali, ovvero di un elemento essenziale nella contingenza della
necessità, ma che se generalizzato significherebbe la resa di ogni ipotesi
alternativa, figuriamoci antagonista o rivoluzionaria. Ammortizzare il
conflitto sociale non ci sembra una grande prospettiva in questo senso, anche perché
coincide con la ristrutturazione statal-capitalista cui la Crisi finanziaria ed
economica sta conducendo l’Occidente. La borghesia europea, difatti, non ha mai
smesso di porsi il problema di contenere il conflitto sociale e di classe. E proprio
la questione del reddito è parte della strategia propugnata dalla BCE.
Ricordate la lettera della BCE dell’estate scorsa? Quel documento rappresenta
il proposito programmatico di cui si fornita la borghesia finanziaria europea
per attraversare la Crisi economica in corso. Tra gli elementi qualificanti,
segnati in punti, v’era appunto la revisione degli ammortizzatori sociali,
tutta indirizzato all’introduzione del reddito. Una coincidenza pericolosa.
Un altro elemento di debolezza del documento è la sua chiusura
interna a un orizzonte tutto tricolore. I punti di riferimento da cui prende le
mosse sono la protesta del 2 agosto (profondo
sud-est) e la più vigorosa lotta No-Tav (profondo nord-ovest). Se
si volge lo sguardo un po’ più a sud e un po’ più a nord dei confini nazionali,
magari ci rende conto che possiamo anche assumere (se la prospettiva
internazionalista è la nostra bussola di orientamento e non una battuta da bar)
un punto di vista un poco più radicale e possibilmente più concreto. Tra una
contraddittoria ma potente primavera
araba e i conflitti degli operai greci, spagnoli e francesi (ricordate i
sequestri di manager, le fabbriche minate con la dinamite, le occupazioni delle
stesse ecc di 3-4 anni fa?), per non parlare delle violente fiammate di lotta
di classe in Cina, si potrebbe anelare una proposta differente, magari solo un
immaginario o un linguaggio davvero comune
e “globale”. Nessuno è così sciocco da pensare di riprodurre tali lotte anche
qui. Ma una riflessione di maggiore respiro sarebbe interessante e di certo
proficua.
Il problema non è il lavoro
in sé, ovvero la capacità umana di trasformare l’esistente che, dalla
rivoluzione neolitica ci ha permesso, in parte, di emanciparci dalla legge di natura, quella in cui
il più forte sopravvive. Né lo è la questione della redistribuzione delle
ricchezze. A nostro avviso c’è un problema vecchio circa 5.000 anni che è
quello della proprietà privata dei mezzi utili alla produzione, che finché
saranno privati alla collettività e detenuti da singoli e associazioni di
singoli il problema sarà lì, sornione e mordace.
Quando smetteremo di fare i bravi, anche se arrabbiati, cittadini
occidentali, questuanti e piagnoni, e ci riconosceremo in un interesse
collettivo radicalmente alternativo e futuribile, forse anche le prospettive cambieranno
e si eviterà di avanzare sciocche proposte, volte a legarsi mani e piedi a uno
Stato borghese e proporre l’auto-ricatto del reddito. Sì, ricatto: il reddito, come
viene concesso viene ritirato e chi lo concede detta tutte le condizioni. È una
burla atroce.
Un sano e robusto sindacalismo d’azione diretta, autorganizzato
ed espropriatore, come la tradizione del movimento operaio internazionale
insegna, sarebbe un’opportunità da cogliere. Troppo utopistico? Bene! Di certo maggiormente
dignitoso che, piattino alla mano, mendicare qualche spicciolo (reddito) al
governo del proprio Paese.
Nessun commento:
Posta un commento