REFERENDUM SUL LAVORO (ART. 18 L.
300/70 E ART. 8 L. 138 bis),
UN’OPPORTUNITA’ DI MOBILITAZIONE O UNA RINUNCIA ALLA LOTTA?
Uno schieramento vario e
composito delle sinistre, Di Pietro, Vendola, Ferrero, Diliberto, Bonelli, la Fiom, Alba, due giuslavoristi
come Romagnoli e Alleva, altri pezzetti della Cgil, tra cui Gianpaolo Patta e
Gianni Rinaldini, ha costituito il Comitato Promotore che ha depositato in
Cassazione questi due quesiti referendari relativi all’art. 18 L. 300/70(Statuto dei Lavoratori) e dell’art. 8 L.138 bis(Manovra Finanziaria). A sostegno di
questi Referendum si stanno accodando altri soggetti della sinistra politica,
sociale e sindacale.
La nostra non sarà un’analisi
completa del problema, proviamo però a presentare alcuni aspetti critici
secondo noi importanti e, possibilmente contribuire ad una riflessione più
generale. Certo queste riflessioni sono un punto di vista di parte, di alcuni
compagni attivi sui propri posti di lavoro e nel territorio.
L’articolo 18 è diventato già da
anni un problema simbolico molto forte. Allo stesso tempo si tratta di una maniera per distogliere l’attenzione da
un attacco più complessivo che riguarda i salari, gli ammortizzatori sociali, i
contratti nazionali di categoria, etc.. Oggi con la scusa dell’emergenza
prodotta dalla crisi, si vuole completare lo smantellamento delle conquiste
ottenute dal movimento operaio nel passato. Per i padroni e per i loro governi
l’art. 18, da una parte, è una questione di principio, visto che questo
strumento è utilizzabile in casi sempre più limitati e che milioni di
lavoratori e precari sono oggi già esclusi dalla sua tutela. Per la borghesia è
quindi una questione di principio perché si tratta di recidere ogni ricordo
delle lotte degli anni ‘60 e ‘70, per concludere un periodo di restaurazione
antisociale iniziato oramai molti anni addietro. Dall’altro l’abolizione
parziale o completa di quest’articolo dello Statuto dei Lavoratori è un modo
concreto ed efficace per eliminare le avanguardie più combattive dalle aziende
medie e grandi.
Nella fase attuale di crisi del
capitalismo, il riformismo nostrano offre armi sempre più spuntate che si
trasformano in brucianti sconfitte per i lavoratori e le lavoratrici.
Sembra che la storia, anche
quella molto recente, non insegni proprio nulla, a neanche dieci anni, era il
2003, dalla batosta del Referendum promosso da Rifondazione Comunista, per
l’estensione dell’art. 18 ai lavoratori delle aziende con meno di quindici
dipendenti, si vuole ripercorrere la strada che portò a quella cocente
disfatta. Non era, del resto, la prima volta che si perdeva un Referendum, ma
mai con quelle proporzioni. Il 15 giugno 2003 andarono a votare 12.667.178
cittadini e cittadine pari al 25,6% degli aventi diritto al voto, lontanissimi
dal quorum necessario alla validazione della consultazione. Un fallimento
pesante ed inconfutabile che ha ulteriormente deluso e demoralizzato i
lavoratori e le lavoratrici. Un risultato pessimo che i padroni hanno sfruttato
al meglio.
Sarebbe interessante sapere dai promotori
di questa iniziativa, cosa sia cambiato in meglio in Italia, in termini di
consenso e coscienza rispetto a nove
anni fa, perché a noi sfugge proprio.
Prima di addentrarci in alcune critiche
sull’istituto referendario, sui suoi pro
e contro, è forse il caso anche brevemente di rinfrescarci la memoria su alcuni
dei precedenti Referendum, relativi al mondo del lavoro, promossi negli anni
’80 e ’90.
Il 9 e 10 giugno 1985, si votò
per esprimersi se abrogare il cosi detto decreto di San Valentino poi divenuto
legge, che tagliava quattro punti percentuali della Scala Mobile. Per
l’abrogazione, si schierarono il PCI(promotore
del Referendum), DP, Lista Verde e MSI. Dall’altra parte schierati per il NO, tutto il
Pentapartito più i Radicali. Nonostante vi fosse ancora un forte e combattivo
movimento dei lavoratori, votarono 34.959.404 persone, il quorum fu raggiunto e
il SI ottenne il 45,7 mentre il NO
arrivò al 53,3. Una grave disfatta che peserà non poco tra i lavoratori e le
lavoratrici. Il lavoro iniziato da Craxi sarà portato poi a termine da un altro
socialista, Amato, neanche dieci anni dopo con l’eliminazione della Scala
Mobile che sarà “sostituita” dal cosi
detto Elemento Distinto della Retribuzione.
Finita la prima Repubblica, nel
1995, alcuni sindacati di base, Rifondazione e sinistra Cgil si fecero
promotori di due Referendum relativi entrambi alla modifica dell’art. 19 dello
Statuto dei Lavoratori, più un terzo sulla Contrattazione nel Pubblico Impiego,
mentre un quarto quesito, invece era promosso da Radicali e Lega, e riguardava
l’abrogazione della norma che imponeva la contribuzione sindacale automatica ai
lavoratori. L’11 giugno gli italiani andarono alle urne per esprimersi su un
totale di 12 quesiti referendari(tranne i tre di cui sopra, gli altri erano
promossi dai radicali), questo ed altri fattori favorirono l’afflusso ai seggi
e il raggiungimento del quorum. Si ebbe una “vittoria fittizia”. Il primo quesito sull’articolo 19, quello
promosso da una parte del sindacalismo di base che voleva l’abrogazione
dell’articolo, che attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative
la titolarità della rappresentanza(richiesta massimale) non passò. Con un quorum del 57,2%(27.218.366 voti), i SI arrivarono al
49,97%, mentre i NO ottennero il 50,03%.
Al primo quesito su l’articolo
19, se ne era aggiunto un secondo in opposizione al primo, promosso dalla
sinistra Cgil dell’epoca, di parziale abrogazione dell’articolo stesso(richiesta
minimale), la cui approvazione ha prodotto l’attuale situazione. Con il
57,2%(27.702.339 voti) si raggiunse
il quorum. Il SI ottenne il 62,1%, mentre il NO il 37,9%.
Gli altri due quesiti relativi
alla contrattazione nel pubblico impiego e alla contribuzione sindacale
automatica videro il raggiungimento del quorum e una vittoria del SI.
Incredibilmente e a sfregio di
quella consultazione il segretario della Fiom, oggi, chiede (al Governo?) di ripristinare l’articolo
19 dello Statuto dei Lavoratori come era prima del Referendum abrogativo
parziale(intervista a Landini su La Repubblica del 17
gennaio di quest’anno), cioè di ripristinare quel primo comma che
attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative(CGIL,CISL,UIL e oggi la cooptata UGL) il
monopolio della rappresentanza. Oggi
la formulazione uscita dal Referendum del ‘95 colpisce, penalizzandola, la Fiom, così sostengono sia
Landini che Fassina, divisi sull’attuale proposta referendaria, ma uniti
nell’avversare l’esito della Consultazione del 1995, per imporre alle
controparti padronali la Fiom
come organizzazione riconosciuta tramite una legge dello Stato. Rinunciando
così ad imporsi alla controparte sulla base dei rapporti di forza(il Sindacato dei Metallurgici conta più di
360.000 iscritti, ma ci sembra abbia un potere contrattuale minore di quello
che hanno qualche migliaio di tassisti). Negli anni l’abrogazione parziale
dell’art.19 ha colpito e fortemente limitato anche la crescita del sindacalismo
alternativo impedendogli spesso di avere le trattenute sindacali, il diritto a
tenere assemblee in orario di lavoro, di sedere ai tavoli negoziali anche nelle
aziende in cui rappresenta una cospicua e/o maggioritaria parte dei lavoratori.
Questo scempio si è andato ad aggiungere all’accordo della triplice, CGIL,CISL,UIL
del ‘93 che attribuiva ai firmatari di contratto nazionale la riserva del 33%
degli eletti nelle RSU a prescindere dai risultati elettorali, e di cui anche la Fiom ha lungamente
beneficiato.
Comprendiamo l’inquietudine ed il
tormento del Sindacato dei Metallurgici, attaccato frontalmente da Marchionne,
messo all’angolo in aziende in cui la presenza della sua organizzazione è forte
e radicata. Ma la dirigenza Fiom invece di farsi punto di riferimento di una
ricomposizione del sindacalismo di classe e conflittuale, aldilà di qualche
distinguo come questo dei Referendum, utile al recupero di consenso a sinistra,
ci sembra sempre più appiattita ad una visione del Sindacato non troppo
distante dal resto della Confederazione diventata da decenni una burocrazia
parastatale con un’idea dell’organizzazione dei lavoratori che ha come modello,
delle relazioni sociali basate sulla collaborazione(cogestione) tra le classi nell’interesse generale della nazione.
Una visione e una pratica del sindacalismo in sostanza neocorporativo.
L’istituto referendario
meriterebbe un approfondimento maggiore, viste anche tutte le implicazioni
relative a quale tipo di democrazia ci interessa coltivare e sviluppare. Alcune
brevi considerazioni sono però d’obbligo, visto che in questi ultimi anni c’è
capitato di dover prendere posizione di fronte ad alcuni appuntamenti
importanti come quelli sull’acqua ed il nucleare. Si tratta dunque di uno strumento di democrazia diretta che consente
agli elettori-cittadini di fornire - senza intermediari - il proprio parere o
la propria decisione su un tema specifico oggetto di discussione? Alcuni sostengono che
l’utilizzo dell’istituto referendario è tuttavia indesiderato dalla maggior
parte dei partiti politici, perchè il potere più rilevante dei partiti, consiste proprio nel controllo
sulle procedure mediante le quali viene presa la decisione e si legifera, e
quindi con il Referendum è l’intera classe politica che si sente espropriata
della sua funzione.
Il Referendum è per noi
un’arma a doppio taglio, da una parte infatti questo tipo di strumento oggi
come oggi, in questa società, può essere un’arma plebiscitaria in mano ad una
borghesia che detiene il monopolio dei mezzi di comunicazione, e che quindi è
in grado di manipolare a suo piacimento informazioni e notizie, capace di
determinare un consenso ampio tra le masse alla sua politica. Dall’altra parte,
in alcune situazioni specifiche, è innegabile che su alcuni temi particolari(di carattere più interclassista) ci
possa essere un sentimento diffuso di opposizione anche a ciò che i mass media
propagandano, è stato così con le consultazioni relative al no al nucleare,
alla depenalizzazione delle droghe leggere, fino a quella sull’acqua pubblica(accenniamo solo ai Referendum vinti, più
recenti). In questi casi, nonostante i risultati delle votazioni, i
Referendum sono però rimasti in buona parte lettera morta. Del resto per
rendere inefficace una Consultazione basta che il Parlamento modifichi la legge
in questione prima delle votazioni e il Referendum salta. Così come la vittoria
in una consultazione referendaria non è garanzia di nulla, poiché la
maggioranza parlamentare può sempre fare una legge, anche peggiorativa di
quella precedente la
Consultazione e vanificare così il Referendum e tutti gli
sforzi fatti in tal senso. Un’altro problema non secondario è relativo al
requisito del raggiungimento di un quorum per la validità del voto e dei suoi
effetti. Se i contrari, in una consultazione, si dividono tra chi vota no e chi
non vota per non far raggiungere il quorum, il sì può vincere anche con una
minoranza: ad esempio se il 25% più 1 votano sì, il 25% vota no, il 25% non
vota per non far raggiungere il quorum, e un’altro 25% sono quelli che comunque
non vanno a votare, il quorum viene raggiunto e vince il sì, anche se i
sostenitori del no sono il doppio. Del resto il 50% più uno è una maggioranza
reale? Non vogliamo però sostenere che il
Referendum non possa essere, in alcuni casi, uno strumento da utilizzare, ma
visti i limiti e le contraddizioni insiti di per sé in questo istituto,
crediamo che ne vada fatto un uso attento ed intelligente. D’altro canto non
possiamo neanche nasconderci che oggi dietro i Referendum si cela un modo per
attingere ai finanziamenti pubblici, sappiamo bene infatti che per i promotori
delle consultazioni ci sono lauti rimborsi elettorali.
Alla fine di questo ragionamento ci chiediamo: “Perché mai dovremmo
andare a chiedere di votare per noi, a commercianti, liberi professionisti,
datori di lavoro, ect., su un tema così particolare? Più in generale perché una
massa eterogenea di lavoratori impiegati nelle piccole aziende, milioni di
precari e lavoratori al nero senza contare la miriade di lavoratori formalmente
autonomi, tutti lavoratori che l’articolo 18 dello Statuto non lo hanno
mai conosciuto come una tutela concreta,
dovrebbero recarsi alle urne e votare per l’abolizione dell’attuale modifica
all’articolo?
Saremo maliziosi ma questa storia dei Referendum sul lavoro non ci piace
proprio e ci sembra funzionale ad un ceto politico della sinistra inamovibile
che unitamente alle burocrazie sindacali tenta di salvare la faccia di fronte
alla propria base. Già li sentiamo, questi signori, argomentare la sconfitta
con parole del tipo: “Noi ci abbiamo provato…ma che colpa abbiamo noi se questo
paese è diventato di destra…”
Questa iniziativa è quindi per noi fuorviante e pericolosa per tutti i
lavoratori “garantiti“ e/o precari che siano. Il problema non è solo la ricerca
di visibilità della maggior parte delle forze politiche del Comitato Promotore,
in vista delle prossime scadenze elettorali. Il vero problema è la rinuncia
totale a costruire campagne di mobilitazione e lotte articolate a livello
nazionale per la difesa dell’art. 18. Paradossalmente Cofferati, che non è
certamente più a sinistra degli attuali promotori di quest’iniziativa, una
grande mobilitazione di massa è riuscito a promuoverla!
La battaglia in difesa dell’articolo 18 e più in generale, di tutte le
conquiste sociali ha un senso solo se si trasforma in una battaglia più
generale per l’allargamento dei diritti a chi ne è escluso. Unico elemento,
questo, che può trasformare una lotta di difesa, in una battaglia offensiva, di
rilancio di una prospettiva tesa alla riconquista di diritti, agibilità,
libertà nonché di salario, e che può unificare una classe frammentata e divisa,
contro l’Europa dei padroni e della finanza e le loro politiche di rapina e
guerra.
Roma sett. 2012
CENTRO
DOCUMENTAZIONE ANTAGONISTA –LA
TALPA-
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